Trump, dazi, Africa: buono con Egitto e Kenya, cattivo con il ‘cinese’ Madagascar

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I dazi di Donald Trump anche per l’Africa, per il fronte dei Paesi del nord, ma anche per il composito versante degli stati subsahariani. Alla sera del 2 aprile, come promesso da giorni, il presidente degli Usa con due tavole ‘della legge’ molto appariscenti, ha diviso le acque separando i ‘buoni’ dai ‘cattivi’. Tariffe più alte per i ‘nemici’ economici e geopolitici degli Stati Uniti, meno per alcuni degli altri.

Le misure si sono abbattute anche sui Paesi africani, già in moltissimi casi messi alla prova dalle decisioni Usa sugli aiuti internazionali e Usaid e dagli effetti diretti e indiretti dell’uscita degli States dagli accordi di Parigi sul clima e dall’OMS. L’Asia inevitabilmente filocinese e competitiva (e dove producono i nemici interni di Nike ed Apple) e concorrenziale con la manifattura che Trump vuole far lievitare o riportare a casa propria, è stata complessivamente trattata peggio dell’Europa.

In bella mostra sulle tabelle inerenti le ‘Reciprocal Tariffs’, come indicatori esemplari della scelta di fondo, in generale, spiccano fuori dal contesto delle tariffe per l’Africa – oltre al 20% deciso per l’Europa – l’ulteriore 34% deciso per la Cina (va a sommarsi ad un 20%), il ‘modesto’ 10% comminato agli amici anglosassoni UK e Australia e all’Argentina dell’ultra liberista Milei.

Molto penalizzati, invece, Vietnam (46%), Cambogia (49%), Sri Lanka (44%), Laos (47%), tutti in orbita cinese e terreno di delocalizzazione di marche Usa. Tra i fortemente penalizzati c’è la ambigua Serbia (37%), con India e Giappone che tra gli ‘asiatici’ sono colpiti con un robusto ma non letale 26%. Mentre su un altro quadrante geopolitico importante, Arabia Saudita e Turchia sono colpiti con un benevolo 10%, migliore del 17% comminato a Israele. Per l’Italia – a meno di trattamenti particolari derivanti da trattative one to one successive – valgono le percentuali UE, con un conto finale degli effetti valutato da alcuni esperti allo 0,4% del PIL.

Africa e Trump, ecco numeri e tendenze. Il caso Kenya

Tornando all’Africa, anche in questo caso più ‘colpiti’ risultano i Paesi che hanno ceduto in questi anni alla seduzione della via della Seta. Con un sovrappiù di severità in qualche caso più specifico.

Ad esempio, il Sudafrica del Doge, Elon Musk, Paese criticato per una legge tesa a ridistribuire le grandi proprietarie terriere ‘in danno’ della componente bianca del Paese, è stato soggetto a un dazio del 30%, mentre la Tunisia dovrà affrontare una tariffa del 28%.

Altri paesi africani, come il Madagascar e il Botswana, hanno visto decisi per loro dazi, rispettivamente, del 47% e del 37%, con il Lesotho al 50% e Mauritius al 40%.

Un trattamento medio è stato fissato per la Costa D’Avorio, al 21,2%, mentre affronteranno una tassazione più bassa la gigantesca e promettente Nigeria (14%) e quindi, al 10% sono stati tassati i filoccidentali e, spesso ‘finanziati’ da oltre Atlantico, Marocco, Egitto e quindi Kenya, Ghana, Etiopia, Tanzania, Uganda, Senegal, Liberia.

Con Donald come con Joe. La bastonata al Madagascar

Il presidente del Kenya, William Ruto, che aveva già avuto solide relazioni con gli Usa nel periodo dell’amministrazione democratica di Joe Biden, nelle ultime settimane ha lanciato segnali di rispetto e disponibilità a Donald Trump. Un dialogo di Ruto col segretario di stato Usa, Marco Rubio, ha ribadito come oltreoceano apprezzino il ruolo di stabilizzatore dell’east Africa svolto tradizionalmente da Nairobi.

I rapporti solidi di alcuni Paesi con Pechino, più che con la Russia, appaiono come una condizione penalizzante. La Cina è il principale partner commerciale del Madagascar dal 2015. Anche il bastonatissimo Lesotho ha relazioni strette con la Cina, con progetti di cooperazione bilaterale che includono infrastrutture sanitarie e programmi di sviluppo. Pechino ha fornito assistenza medica e supporto durante la pandemia di COVID-19, rafforzando i legami tra i due Paesi.