Stephen che evita decapitazione, Ruto e l’Arabia Saudita

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Ha poco più di trent’anni Stephen Munyakho, ed ha appena evitato la decapitazione. Liberato, è andato a La Mecca a ringraziare Allah. Ma andiamo per ordine.

Cittadino keniota tra i tanti emigrati in Arabia Saudita a lavorare – Stephen aveva poco più di venti quando, dopo una prima condanna per omicidio colposo a 5 anni nel 2011, fu condannato nel 2014 alla pena di morte per l’omicidio ritenuto ‘intenzionale’ in secondo grado di giudizio di un collega yemenita in circostanze mai chiarite fino in fondo.

Eccesso di legittima difesa

Il condannato ha sempre sostenuto che la sua fosse stata una sorta di legittima difesa, di essere in realtà stato aggredito dal collega morto e di avere usato la sua arma – un pesante fermacarte –  per fermarlo. La legge dell’Arabia Saudita aveva però decretato per lui la colpevolezza ed il massimo della pena, morte per decapitazione, al secondo grado del processo.

Stephen salvato dalla madre. E dal governo di Ruto

Non è stato così però, alla fine, e si è arrivati ad una svolta positiva dopo anni in cui c’era stata una sostenuta mobilitazione di movimenti di opinione a favore del condannato.

La madre, la giornalista veterana Dorothy Kweyu, si è impegnata al massimo delle proprie forze per scongiurare l’esecuzione capitale di Stephen. E anche il governo di William Ruto ha intrapreso una lunga trattativa diplomatica con le istituzioni arabe. La conferma che gli arabi sarebbero stati clementi e il condannato liberato è arrivata infine dall’ambasciatore saudita. Decisiva una legge coranica.

Ruto e Bin Salman

L’Arabia Saudita in questo caso ha adottato una legge islamica, secondo la quale la condanna a morte può essere commutata se la famiglia del defunto accetta il ‘dihya’, un risarcimento, una volta stabilito appunto ‘il prezzo del sangue’.

Secondo i media kenioti ai parenti dello yemenita è andato un pagamento di 1 milione di dollari, effettuato con il contributo per governo. Durante una cena ufficiale (Iftar) a Nairobi, il presidente aveva fatto una richiesta personale per salvare Munyakho dalla decapitazione. Questo appello è stato rivolto al rappresentante saudita e ha avuto un impatto decisivo.

Il Ministero degli Esteri del Kenya ha ringraziato anche la Muslim World League. La vicenda racconta bene anche la necessità per il presidente di riscattare la propria immagine in patria. Di recente un quotidiano in un lungo articolo si chiedeva se Ruto non fosse davvero “il presidente più odiato del Paese” dalla conquista dell’indipendenza, sostanzialmente accreditandogli antipatie maggiori anche di consacrati semi-dittatori precedenti. In termini, geopolitici, invece, racconta almeno due cose.

Come l’Arabia Saudita sia un naturale orizzonte di lavoro per i giovani dell’Africa Orientale, ma anche un interlocutore politico fondamentale per tutti i Paesi di questa area geografica.

La legge del sangue

Tornando alle ragioni della liberazione del condannato, va ricordato come la “legge del sangue” sia appunto conosciuta nel diritto islamico come Diyya (o Diya), ed è una forma di compensazione finanziaria che può essere pagata alla famiglia di una vittima in caso di omicidio o lesioni gravi.

La Diyya è una somma di denaro che l’autore del reato (o i suoi rappresentanti) paga alla famiglia della vittima come alternativa alla pena capitale o alla punizione corporale. La Diyya è prevista nel Corano (Sura An-Nisa 4:92) e nella Sunna. È considerata una forma di giustizia riparativa. E’ valida solo se la famiglia della vittima acconsente. In caso contrario, può essere richiesta la pena di morte (Qisas, cioè “occhio per occhio”).

In Arabia Saudita in n caso di omicidio colposo, la Diyya è spesso fissata a circa 300.000 riyal sauditi. In caso di omicidio intenzionale, la famiglia della vittima può chiedere qualsiasi somma o rifiutare del tutto la compensazione e insistere per l’esecuzione. La somma può variare anche in base alla religione e al genere della vittima, secondo alcune interpretazioni tradizionali