La COP30, ovverosia la trentesima Conferenza delle Parti sul clima, si è svolta a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, dal 10 al 22 novembre 2025. L’evento era carico di aspettative per diversi motivi. La scelta di Belém – tra qualche problema logistico per le delegazioni – alle porte della foresta amazzonica voleva sottolineare l’urgenza di proteggere uno dei principali regolatori climatici del pianeta.
L’evento, inoltre, cadeva nel decennale dell’Accordo di Parigi, e si sperava potesse costituire un momento di rilancio degli impegni globali sul clima.

L’agenda era ambiziosa: mitigazione, adattamento, finanza climatica, tutela delle foreste e dei popoli indigeni erano i temi centrali.

Tuttavia, il contesto geopolitico ha pesato enormemente. Gli Stati Uniti non hanno inviato alcuna delegazione. Cina e India erano presenti solo con rappresentanti di secondo piano. Questa assenza di leadership – ma anche dei grandi Paesi inquinatori – ha indebolito il negoziato fin dall’inizio.
Il documento finale di COP30: la “Mutirão Decision”
Dopo due settimane di trattative e oltre 18 ore di ritardo sulla chiusura prevista, la COP30 si è conclusa con la cosiddetta Global Mutirão Decision. Il termine “mutirão” richiama l’idea di mobilitazione collettiva, ma il contenuto del testo è stato giudicato poco ambizioso.

Il documento, con un linguaggio generico e compromissorio, conferma gli obiettivi dell’Accordo di Parigi (contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 °C), pur riconoscendo implicitamente che non sono a portata di mano e che il testo non ha alcuna forza vincolante. Mancavano, è vero, i grandi inquinatori, ma anche tra gli Stati presenti ce ne erano molti geneticamente renitenti alla decarbonizzazione e alla rinuncia al petrolio. Nessun riferimento esplicito viene fatto alla graduale eliminazione dei combustibili fossili, nonostante fosse il tema più atteso.
Vengono presi impegni per accelerare la transizione energetica e triplicare i fondi per i Paesi vulnerabili, ma senza dettagli operativi su tempi e modalità.
Il grande assente: l’uscita dai combustibili fossili
Uno dei punti più controversi è stato l’eliminazione graduale di carbone, petrolio e gas. Oltre 90 Paesi, tra cui Regno Unito, Germania e Paesi Bassi, chiedevano una tabella di marcia per la transizione energetica, ma i Paesi produttori di petrolio (Arabia Saudita, Russia, India) hanno bloccato ogni riferimento ai fossili.
Risultato: il testo finale non menziona alcuna roadmap, rinviando la discussione alle prossime COP. Questo è stato definito da molti osservatori un “fallimento morale” per le comunità più colpite dalla crisi climatica.

Se sul fronte dei combustibili fossili la COP30 è stata un passo indietro, qualche progresso si è registrato sulla finanza climatica con l’impegno a triplicare i fondi per l’adattamento entro il 2035. Decisa quindi la mobilitazione di 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per sostenere azioni climatiche nei Paesi a basso reddito.
Annunciate anche iniziative come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5°C, pensate per promuovere l’implementazione degli impegni esistenti.
Tuttavia, anche qui mancano dettagli vincolanti e meccanismi di monitoraggio efficaci.

Foreste e popoli indigeni: qualche buona notizia
Un aspetto positivo è stato il lancio del Tropical Forest Forever Facility (TFFF), un fondo dedicato alla tutela delle foreste tropicali. Inoltre, è stata confermata la demarcazione dei territori indigeni, riconoscendo il ruolo cruciale delle comunità locali nella conservazione degli ecosistemi. Questi impegni, sebbene importanti, restano però subordinati alla disponibilità di risorse e alla volontà politica dei governi.
Divisioni geopolitiche e crisi di governance
La COP30 ha messo in luce una profonda crisi del processo negoziale. Il meccanismo decisionale basato sul consenso consente a pochi Paesi di bloccare le scelte della maggioranza. L’assenza di grandi economie (USA, Cina, India) ha indebolito il peso delle proposte più ambiziose.
Cresce il dibattito su una riforma della COP, per renderla più trasparente e capace di prendere decisioni vincolanti. Alcuni Paesi, come la Colombia, hanno proposto di avviare alla COP31 un percorso per una “giusta transizione” e per rafforzare le regole dell’Accordo di Parigi.
Il ruolo dell’Africa
Oltre 50 Paesi africani erano presenti, con una forte pressione per ottenere più risorse per adattamento e perdite e danni, dato che l’Africa è tra le regioni più vulnerabili agli impatti climatici (siccità, desertificazione, cicloni).
Tra le richieste principali, in tema di finanza climatica: aumento dei fondi per adattamento e resilienza, con obiettivo di triplicare i finanziamenti entro il 2035; giusta transizione, con sostegno per passare alle rinnovabili senza compromettere lo sviluppo economico; protezione delle foreste tropicali, con impegno per il bacino del Congo, seconda foresta pluviale al mondo.
Cosa è sortito dall’appuntamento? Confermata la creazione del Tropical Forest Forever Facility, che include anche il bacino del Congo. Promessi 1.300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 per i Paesi vulnerabili (Africa inclusa), ma senza dettagli vincolanti. Nessuna certezza sull’uscita dai combustibili fossili, tema critico per Paesi africani produttori di petrolio e gas.
Conclusione: una COP di compromessi e rinvii
La COP30 doveva essere la “COP dell’implementazione”, ma si è trasformata in una conferenza di compromessi e rinvii. Nessun passo avanti reale sull’uscita dai combustibili fossili, obiettivi climatici lontani e una governance globale in crisi.
Eppure, tra le pieghe del negoziato emergono segnali di speranza: più attenzione alle foreste, impegni (ancora vaghi) sulla finanza climatica e la volontà di ripensare il processo COP. Il prossimo appuntamento sarà la COP31 in Turchia (2026), che dovrà affrontare il nodo della riforma e della “giusta transizione”.