Usaid “sventrata”: meglio industrializzare i Paesi poveri

SOMMARIO

Nessun contenuto disponibile.

Aiuti e charity? E’ iniziata – con lo stop a Usaid di Donald Trump ma non solo – forse una nuova era, ed è meglio industrializzare i Paesi poveri. Emanciparli con lo sviluppo industriale in loco dai capricci e la sensibilità mutevole e incostante dei grandi e piccoli donatori.

La tesi, provocatoria ma più che razionale, è contenuta nell’ultimo numero di Foreign Affairs, ed a sostenerla è una super esperta in materia, Zainab Usman. Stiamo andando verso la fine dell’industria degli aiuti e la priorità – è la tesi del testo – per i Paesi più ricchi, diventa quella di favorire ‘davvero’ l’industrializzazione dei più poveri.

Un salto quantico

Industrializzare i Paesi in ritardo, non solo la generosità. Emancipare i poveri dalla carità spesso ‘pelosa’ dei Paesi più ricchi. O, per lo meno, fare diventare più industriosa la logica con cui si distribuiscono aiuti e finanziamenti. Sganciare gli aiuti ai Paesi in difficoltà da un certo grado di fisiologica precarietà, in molti casi dall’aleatorietà.

Il bell’articolo di Zainab Usman (Senior Fellow e direttore del Programma Africa presso il Carnegie Endowment for International Peace a Washington, D.C.) riflette sul meccanismo di creazione e allocazione degli aiuti economici nell’era globale.

E arriva – già dal titolo – a proporre quella che è una sorta di teoria eversiva. Si punta, cioè, a una rivoluzione del modello. A un vero progetto di emancipazione – anche del sostegno caritatevole – dai caprici del tempo, dei governi, della geopolitica, dei trend espansivi o recessivi dell’economia.

Crisi strutturale di una certa industria degli aiuti

“Ogni decennio circa – scrive Usman – l’industria degli aiuti globali scopre che deve trasformarsi per sopravvivere. Durante questi periodi di cambiamento, i paesi donatori ristrutturano le loro agenzie di aiuto, riducono o espandono i loro budget di assistenza e fanno pressione per la creazione o lo scioglimento di una o due iniziative delle Nazioni Unite. In genere, una volta che l’industria degli aiuti si conforma ai capricci dei paesi donatori, la crisi viene evitata e gli affari continuano come al solito”.

Quello che però è successo nell’era di Donald Trump, che ha “sventrato” Usaid, la più grande agenzia di sviluppo del mondo, “ponendo fine all’86 per cento dei suoi programmi, chiudendo la sua sede centrale e licenziando quasi tutti i suoi 10.000 dipendenti” cambia completamente le carte in tavola e costringe i ‘buoni’ a fare un salto di qualità.

 

 

Uno sforzo d’immaginazione

In un contesto globale in cui ad essere messi in discussione non sono più soltanto la dignità dei più poveri e disagiati, ma anche molti degli equilibri noti dei Paesi fin qui privilegiati dalla storia. L’amministrazione Trump, infatti, ha tagliato anche i finanziamenti sul clima, la salute, l’istruzione, vuole investire – piuttosto – su armi sofisticate e muri che tengano lontani i poveri da quelli che stanno meglio. Mette in discussione anche i Fondi alle grandi Università che hanno formato e stanno formando una nuova generazione di esperti, manager, volontari. In pratica le risorse professionali in generale che fino a questo momento facevano funzionare anche la grande infrastruttura globale impegnata sugli aiuti e su quelle problematiche ESG per nulla care alla nuova amministrazione Usa.

L’industria degli aiuti e delle donazioni, così – è la tesi – che la si consideri o meno tale, sta crollando. E in discussione c’è un vasto settore che fornisce l’intelaiatura, le basi teoriche, la logistica di un vasto sistema che potrebbe essere superato ed è vocato al declino.

Secondo l’autrice bisogna considerare la possibilità di “reimmaginare l’intero concetto di sviluppo globale, staccandolo dagli aiuti e radicandolo invece nella trasformazione industriale: aiutando i paesi a passare dall’agricoltura di sussistenza, dall’occupazione informale e dalla produzione di materie prime primarie verso la produzione e i servizi”.

L’idea di base, evolutiva, riguarda quindi la maniera di intendere il sostegno. “Sollevare le persone dalla povertà in Africa, Asia meridionale e parti dell’America Latina non solo migliorerà le loro vite, ma consentirà anche ai paesi ricchi di mantenere la loro prosperità creando nuovi mercati”.

Cambiare le mediazioni

Usman parla criticamente dell’assetto attuale dell’industria degli aiuti. “Oggi la merce primaria dell’industria degli aiuti esteri è l’assistenza allo sviluppo (ODA), o il denaro dei donatori che scorre verso governi, individui, gruppi, progetti, nei luoghi più poveri, direttamente o attraverso la mediazione di enti, stati, onlus, organizzazioni caritatevoli”.

Come per qualsiasi settore, gli aiuti esteri hanno intermediari. Ma in questo settore, gli intermediari sono particolarmente evidenti. Le entità terze note come “partner di attuazione” includono organizzazioni non governative internazionali, grandi appaltatori privati e società di consulenza.

“Per sfruttare gli effetti della rete e le economie di scala – spiega l’autrice – i partner di attuazione si raggruppano attorno ai principali siti di produzione di aiuti esteri, le capitali dei principali paesi donatori: Berlino, Ginevra, Londra, Parigi, Roma e Washington. Di conseguenza, pochissimi aiuti vengono distribuiti dalle organizzazioni o dalle persone nei paesi poveri”.

Nel 2020, secondo i ricercatori del Center for Global Development, meno del nove per cento degli aiuti statunitensi è stato amministrato da governi beneficiari o aziende con sede nei paesi beneficiari. Secondo un’analisi di Devex, 47 dei 50 migliori appaltatori di Usaid si trovano negli Stati Uniti.

Un consenso mutevole e ora carente

A Occidente il consenso su quanto i paesi ricchi dovrebbero spendere per gli aiuti e a cosa dovrebbero dare la priorità è cambiato nel tempo. Una risoluzione delle Nazioni Unite del 1970 raccomandava che i paesi dedicassero lo 0,7 per cento del loro reddito nazionale lordo agli aiuti, ma al 2023 solo cinque paesi avevano raggiunto tale obiettivo (Danimarca, Germania, Lussemburgo, Norvegia e Svezia). Ridurre la povertà, la lotta al cambiamento climatico sono stati temi chiave dell’impegno.

Molti elettori di destra nei paesi ricchi ora vedono l’aiuto estero come uno spreco. Un investimento focalizzato su cause ‘di sinistra’. Il discorso non vale solo per gli Usa. Negli ultimi mesi hanno tagliato gli aiuti esteri anche la Germania, che è il secondo più grande donatore di aiuti bilaterali al mondo, il Regno Unito, i Paesi Bassi.

Gli aiuti esteri – in senso tradizionale – sono diventati rapidamente un’industria al tramonto. “Ma ciò non significa che i paesi ricchi debbano rinunciare del tutto a combattere la povertà. È nell’interesse degli stati ricchi – sottolinea l’autrice – ridurre la pressione della migrazione cercando di migliorare le economie e la stabilità dei paesi dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia meridionale”.

La soluzione secondo Usman: “Esperti di politica, intellettuali, attivisti, filantropi e operatori umanitari devono salvare lo sviluppo globale disaccoppiandolo dall’industria degli aiuti e ancorandolo in una strategia di trasformazione industriale”.

Finanziamenti a basso costo nei settori essenziali

La ricetta di Usmain? I sostenitori dello sviluppo globale dovrebbero concentrarsi sul consentire ai paesi più poveri di accedere a finanziamenti di sviluppo a basso costo per investimenti mirati in settori che collegano le persone, come l’elettricità, le telecomunicazioni e il trasporto di massa. Il finanziamento dello sviluppo deve includere gli sforzi per arginare i flussi finanziari illeciti (che alimentano la corruzione dei governanti).

“Se i sostenitori dello sviluppo globale abbracciano la trasformazione industriale come loro stella -sottolinea l’autrice – possono aiutare a sollevare le persone dalla miseria evitando il contraccolpo politico. Se i paesi poveri si industrializzeranno, il mondo intero ne beneficerà. Lo sviluppo globale ha le migliori possibilità di sopravvivere e di ottenere risultati se è visto come più di una semplice carità”.

Il salto di qualità

Un paese diventa industrializzato quando adotta la tecnologia che gli consente di meccanizzare e digitalizzare, portando ad aumenti della produttività e delle competenze della sua forza lavoro. Alla fine, i lavoratori di un paese industrializzato passano dall’agricoltura di sussistenza a settori ad alta produttività come l’elettronica, i prodotti farmaceutici, le tecnologie verdi e i servizi digitali. E strettamente associati a redditi e occupazione più elevati in queste industrie moderne sono cambiamenti sociali come più donne che lavorano in lavori formali, più ragazze nelle scuole e meno matrimoni infantili.

La mission di Alice for Children

Discorsi quelli dell’autrice, che in qualche maniera ricalcano o sono simili anche ad alcuni dei concetti che sono alla base dell’impegno e della filosofia di Alice for Children. La nostra onlus sta allargando anno dopo anno il focus della propria azione umanitaria. Da vent’anni salvare i bambini che vivono ai margini delle discariche di Nairobi e nella savana Maasai è il primo punto.

Ma per farlo (e nel farlo) abbiamo individuato nella formazione dei ragazzi (dall’asilo fino ai corsi speciali) un aspetto fondamentale. E poi – sempre più, di recente – nel supportarli nell’ultimo miglio critico, nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. In questo contesto, la prospettiva che Africa (e Kenya, più in particolare) aggancino la strada dello sviluppo economico sono diventati una parte importante della nostra azione sul territorio.